Luigi Di Gianni (nato a Napoli il 20 ottobre 1926 e morto a Roma il 10 maggio 2019) è uno sceneggiatore e regista italiano. Luigi Di Gianni crede nel potere del cinema. È questo spirito, tragico e canaglia, che lo possiede da sempre. E che rende i suoi film un'esperienza difficile da dimenticare in fretta. È uno spirito insinuante, che finisce per deliziare e persino tormentare lo spettatore, a prima vista estraneo a lui. Ha tentacoli multiformi e imprevedibili, che sfuggono alla sicurezza di una facile classificazione. Ogni volta che si prova ad azzardare una definizione, si ha il sospetto di cadere nel riduzionismo, come se mancasse sempre qualcosa. Partendo da una domanda inevitabile, per quanto tediosa possa sembrare: possiamo essere felici di parlare, nel suo caso, di cinema documentario? Se glielo chiedessero, Di Gianni risponderebbe sicuramente con un no perentorio, e per una buona ragione. Il suo è un cinema decisamente autoriale. È attraversato da tensioni culturali e intellettuali che abbracciano letteratura, musica, filosofia e grande cinema. È sostenuto da un desiderio a volte insoddisfatto di controllare ritmi, atmosfere, suoni, luci, movimenti… Soprattutto, è mosso dalla convinzione che il cinema sia uno strumento espressivo che ci offre una visione (diventata nera) dell’uomo e del mondo. E tuttavia è chiaro che pochi cineasti hanno saputo documentare con tanta profondità alcuni degli aspetti più sorprendenti, strazianti e inquietanti della nostra società, soprattutto quelli radicati nelle miserie ataviche del Sud, come a tracciare le pieghe profonde di un “anti-miracolo” italiano. Proviamo a indovinare. Di Gianni porta alla luce ciò che altrove tendiamo a nascondere sotto il tappeto della razionalità e del perbenismo, ma che, inesorabilmente, è lì sotto, a fare pressione: il suo cinema è la documentazione della repressione sociale. Seguiamo il filo delle apparenti contraddizioni. Di Gianni è un regista apolitico, non crede al progresso (preferisce il labirinto infinito), tende a stare dalla parte della storia. Ma, allo stesso tempo, si avverte nei suoi film un grido di ribellione, un amore per l’ultimo; insomma, una tensione etica e civile che spesso manca in quei registi il cui scopo primario è cambiare il mondo. Ancora una volta: i personaggi dei suoi film sembrano inesorabilmente avvolti nel mantello della tragedia, e tuttavia ci sorprende, in certi momenti, la beffa di un colpo di scena inaspettatamente grottesco. Armati di presunzione civica, siamo tentati di indignarci per dimostrazioni che sembrano sprofondare negli abissi dell’ignoranza e dell’arretratezza, ma, allo stesso tempo, è difficile trovare cineasti che si pongano di fronte al mondo che scelgono di rappresentare con più rispetto, sottraendosi alla tentazione di giudicare. E vogliamo dire che il suo cinema è “etnografico”? Certo, ne è uno dei maestri indiscussi. Peccato che sia lui il primo a negarlo con forza, sostenendo invece che i suoi film parlano di altro. Non sorprende che il cinema di Di Gianni sia un oggetto magnificamente isolato, non solo in Italia. Forse è anche questa una delle ragioni del suo fascino, inalterabile con il passare del tempo. La ripresa dei suoi film ci sembra, semplicemente, necessaria.